fonti in fondo al testo.
Le Città degli Elohim – I ricercatori giapponesi stano svelando il mistero della civiltà dell’Indo
Cinque anni di studio da un gruppo di ricerca giapponese potrebbe cambiare la visione accettata dell’antica civiltà della valle dell’Indo.
Sui manufatti rinvenuti preso le rovine di Kenmar si possono vedere gli unicorni. I ricercatori pensano che forse hanno servito come un tipo di passaporto. Per gentile concessione di Toshiki Osada
Lo studio ha trovato che migliaia di anni fa, diverse città nella valle dell’Indo, in quello che è oggi il Pakistan e l’India, hanno creato una rete commerciale che è diventata una civiltà multilingue e multiculturale, e non una società fondata sullo Stato autoritario centralizzato come si credeva precedentemente. Molte caratteristiche di questa antica civiltà sono oggi visibili nelle società dell’Asia meridionale, e questi legami tra l’antico e il moderno stanno suscitando l’interesse dei ricercatori.
L’immagine fresca della civiltà dell’Indo è stata dipinta da un team di ricercatori guidato dal professor emerito Toshiki Osada dell’Research Institute for Humanity and Nature, che ha sede a Kyoto. I risultati di cinque anni di ricerca, noti come il Progetto dell’Indo, sono stati pubblicati nel mese di ottobre dal Kyoto University Press come “Indus: Exploring the World fondamentale di Asia del Sud” e “L’enigma della Civiltà dell’Indo”, entrambi compilati da Osada.
Il gruppo di ricerca, guidato dai giapponesi, è composto da circa 40 ricercatori provenienti da vari paesi.
Leggi di più http://asia.nikkei.com/magazine/20131219-Power-play/Culture/Japanese-researchers-help-unravel-mystery-of-the-Indus-civilization
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Questo è ancora una scoperta che sta indicando che la storia ufficiale della Terra DEVE essere riscritta.
Le Città degli Elohim
Secondo l’archeologia tradizionale ciò che viene definita civiltà ebbe inizio in Mesopotamia ed in Egitto, circa 5000 anni fa in concomitanza con l’avvento della scrittura. Scrittura che corrisponde anche al passaggio dalla preistoria alla storia.
Nell’interpretazione storiografica ufficiale, studiata sui libri di scuola e o attraverso documentari e pubblicazioni prima di questa importante scoperta, l’uomo fu in grado solo di organizzarsi in un insieme disordinato di tribù o piccoli villaggi neolitici dedicandosi prevalentemente a caccia e raccolta. L’agricoltura era sconosciuta, la scrittura era molto al di là da venire e la vita nel villaggio era estremamente semplice e si ripeteva uguale e costante da decine e decine di migliaia di anni, immutabile. Immutabile come quel gelido clima che caratterizzava le latitudini nord del pianeta durante l’ultimo periodo glaciale.
Durante l’ultima glaciazione, detta del Wurm, che iniziò 75000 anni fa e conobbe il suo acme intorno a 20000 anni fa, l’Europa era ricoperta da una coltre di ghiacci spessa 2000-3000 metri che dal polo Nord scendeva fino alla latitudine di Londra. I ghiacciai rappresentano una riserva di acqua dolce «fissata» in forma solida, che pertanto viene sottratta al normale ciclo che lega i mari all’atmosfera e ai continenti attraverso i processi di evaporazione e di precipitazione. Di conseguenza durante le glaciazioni i mari regrediscono, mentre il contrario avviene nei periodi postglaciali. Al culmine dell’ultima glaciazione l’abbassamento marino arrivò fino a 100 metri, tant’è che 20 000 anni fa laddove oggi troviamo lo stretto di Bering una continuità di terre collegava l’America settentrionale all’ Asia.
In Italia la pianura padana si estendeva per tutta la parte settentrionale dell’ Adriatico. Le terre di Doggerland sostituivano il Mare del Nord, kilometri e kilometri quadrate di terre oggi sommerse dalle acque del mare erano a disposizione delle popolazioni umane del tempo, tra cui il mare prospiciente l’isola di Bimini, quella Yonaguni, del golfo di Khambat… e il Mar Nero era ai tempi un grande lago circondato da una enorme fertile depressione.
Durante questo lungo periodo di tempo che abbraccia un intervallo che va dai 75-100000 ai 12000 anni fa l’uomo inizia come nomade cacciatore/raccoglitore e finisce… ancora come nomade cacciatore/raccoglitore con uno sviluppo tecnologico e socio-culturale pressoché infinitesimale limitato a una migliore lavorazione della pietra di selce o di rudimentali armi per cacciare.
Poi, appunto, 12000 anni fa l’ultima glaciazione finisce, sembra anche in maniera abbastanza repentina, il clima mondiale cambia e l’uomo, che per centomila anni ha passato il suo tempo cacciando e raccogliendo ciò che la natura aveva da offrire, scopre nel giro di pochi millenni, allevamento, agricoltura, scrittura, astronomia, matematica, metallurgia, cultura, gerarchia, politica e costruisce la prime città-stato conosciute dalla storia, in Mesopotamia, nella Valle dell’Indo e in Cina.
Come in molte altre teorie scientifiche che cercano di gettare luce sui misteri antichi dell’archeologia o dell’antropologia, osserverete anche voi che rimangono anche qui diversi dubbi e zone d’ombra. Come è possibile in primo luogo che quegli stessi uomini che hanno trascorso gli ultimi centomila anni a cacciare mandrie di animali selvatici o raccogliere frutta e bacche qua e là, giungano a raggiungere un livello tecnologico e socio-culturale tale da consentire loro la costruzione di città e di edifici che nulla hanno a che invidiare alle più moderna architettura e che anzi, in taluni casi risulterebbero impossibili anche con la nostra tecnologia.
Queste zone d’ombra sono state colmate negli ultimi anni, da altre teorie le quali considerano l’ipotesi che la nascita delle civiltà sulla Terra sia molto più antica di quanto storicamente riconosciuto.
Yuri Leveratto nel suo articolo ci ricorda che “… i sostenitori di queste teorie pensano che prima dell’evento chiamato oggi “diluvio universale”, quasi universalmente riconosciuto come un periodo di sconvolgimenti e catastrofi di portata eccezionale, che ebbero luogo dal 12.000 al 9000 a.C., e che coincisero con la fine della glaciazione di Wisconsin-Wurm, si fossero sviluppate delle civiltà anti-diluviane, in varie zone del pianeta. Queste civiltà, che forse erano in contatto tra loro per via marittima, avrebbero conosciuto l’agricoltura e avrebbero raggiunto importanti risultati nell’astronomia e nella matematica.
Alle basi della teoria delle civiltà anti-diluviane vi sono fonti scritte e ritrovamenti archeologici. Le fonti scritte sono tante, ma le più conosciute sono la “lista dei re sumeri”, la Bibbia (Genesi), i manoscritti del Mar Morto, e la Storia di Babilonia di Berosso. Tutte queste fonti narrano di re leggendari che governarono durante tempi lunghissimi. Il primo di questi re dovrebbe essere stato Alulim, re di Eridu. Secondo Berosso governò a partire da 432.000 anni prima del suo tempo…”
Il che ci riporta direttamente ai tempi degli Anunnaki portati all’attenzione del grande pubblico grazie al lavoro di traduzione delle antiche tavolette sumere svolto da Zacharia Sitchin e dal Kramer. Ai tempi di Enki e di Enlil, al tempo in cui i primi homo sapiens compaiono sulla scena del pianeta, circa 300mila anni fa, ai tempi dei biblici Adamo ed Eva e dei loro figli Abele e Caino e la prima discendenza dei cosiddetti “uomini famosi”.
Yuri Leveratto di nuovo ci ricorda che “… vi sono poi altre fonti, come per esempio il papiro di Torino o la pietra di Palermo, dalle quali si evince che non solo nell’area mesopotamica, ma anche lungo la valle del Nilo, governarono numerosi re in tempi anti-diluviani.
Naturalmente gli storici tradizionali hanno negato la veridicità e l’accuratezza di questi testi, confinandoli nella leggenda.
Siccome durante il lunghissimo periodo glaciale (da 110 a 11 millenni or sono), il livello dei mari era più basso rispetto all’attuale fino a 160 metri (secondo alcuni climatologi fino a 200 metri), è possibile ipotizzare che probabili civiltà anti-diluviane si siano sviluppate in luoghi costieri che oggi sono completamente sommersi dalle acque marine.
Esistono delle evidenze, o resti archeologici di civiltà scomparse sotto i mari. Le più importanti sono: i muri di Bimini, le città sommerse di Canopus e Herakleion nella costa egiziana di Aboukir, i ritrovamenti archeologici nei fondali antistanti la città di Alessandria d’Egitto, le evidenze archeologiche trovate nelle coste indiane prospicenti Khambat e Bet Dwarka, e il monolito di Yonaguni, enigmatico monumento sommerso scoperto nel 1987 dal subaqueo Kihachiro Aratake.
Il monumento di Yonaguni si trova poco lontano dalle coste dell’isola di Yonaguni, facente parte delle isole Ryukyu, appartenenti al Giappone, ma relativamente vicine all’isola di Taiwan.
E’ un parallelepido di roccia lungo circa 150 metri e largo 40 metri. La sua altezza rispetto al fondale è di circa 27 metri. La cima del monumento si trova a 5 metri al di sotto del livello del mare. I ricercatori che hanno studiato il monumento, in particolare lo studioso giapponese Masaaki Kimura, sostengono che l’immensa roccia sommersa sia stata modificata dall’uomo in tempi remotissimi, per motivi cerimoniali.
In effetti si notano blocchi squadrati, rampe, scalinate, spazi destinati ad offerte votive e altre strane formazioni litiche, come la cosidetta “tartaruga”, “la piscina triangolare”, un muro divisorio di circa 10 metri di lunghezza, il “totem”, una colonna alta circa 7 metri.
Secondo Masaaki Kimura, coloro che modificarono il monolito di Yonaguni, rendendolo molto simile a uno ziggurat mesopotamico, devono averlo fatto prima della fine dell’era glaciale, quando il livello dei mari era molto più basso rispetto ad oggi. Sempre secondo Kimura, gli artefici dell’opera potrebbero essere stati i cosidetti “uomini di Minatogawa” dei quali sono stati trovati dei resti nell’isola di Yonaguni risalenti a 18.000 anni fa (da notare che i più antichi resti umani delle isole Ryukyu furono trovati ad Okinawa e risalgono a 32.000 anni or sono).
Anche se il monolito di Yonaguni rimane per molti scettici solamente una formazione naturale, non c’è dubbio che le sue forme squadrate e regolari facciano pensare per lo meno ad un’enorme roccia modificata dall’uomo per motivi cerimoniali, come per esempio lo è Quenco, l’altare cerimoniale situato non lontano da Sacsayhuaman, presso Cusco, in Perú.
Solo ulteriori studi e scavi nelle vicinanze del monolito di Yonaguni potranno fare luce sulla sua vera natura, fino ad ora infatti non sono stati trovati resti di carbon fossile, ceramica o altri residui di occupazione umana, che possano essere sottoposti alla prova del carbonio 14, come invece accadde a Khambat, in India.
Nella descrizione del Diluvio, sia quello biblico che quello delle altre culture, la violenza e repentinità dell’inondazione furono la causa della morte della maggior parte degli esseri viventi. Si può dedurre che lo scioglimento dei ghiacci che avvinghiavano l’emisfero boreale 10000 anni fa si siano sciolti in breve tempo a causa di un evento apocalittico che innalzò le temperature di molti gradi nel circolo polare artico…”
Miliardi di miliardi di metri cubi di acqua si riversarono negli oceani creando onde anomale immense che fecero il giro del mondo spazzando via qualsiasi cosa e riversando miliardi di kilometri cubici di acqua nella vallata del Mar Nero sulle cui sponde vivevano certamente comunità umane ‘preistoriche’ (o presunti tali).
E’ abbastanza logico ritenere che sulle sponde di un lago d’acqua dolce così vasto siano fiorite diverse comunità protostoriche. Ma, appunto a un certo punto, sarebbe ceduta la diga naturale in corrispondenza dell’attuale Bosforo, che isolava il Mar Nero dal Mar Mediterraneo salato: un’immensa cascata si sarebbe riversata nel lago, il cui livello si sarebbe sollevato con estrema rapidità, sommergendo tutti gli abitati umani.
Le ricerche di Walter Pitman, geofisico del Lamont-Doherty Earth Observatory a Pasadena, confermano l’evento di una inondazione dell’area del Mar Nero come evento storico.
Solitamente quando ci riferiamo alle vicende bibliche della Genesi, le immaginiamo verificarsi in quella stessa area geografica tra la Palestina e le valli del Tigri e dell’Eufrate, ovvero dove poi si mossero le storie di Abramo, di Isacco, Giacobbe, e degli altri protagonisti della storia degli Ebrei. In realtà non vi sono elementi nel testo biblico originale che lascino intendere che quanto raccontato relativamente alle storie dei patriarchi, da Adamo a Noè, sia avvenuto davvero nell’antica mesopotamia, terra di Sumer.
Ma se invece lo scenario corretto ove collocare le storie dei patriarchi biblici fino a Noè fosse proprio la regione circostante il Mar Nero? Ciò spiegherebbe l’approdo dell’”Arca di Noè”, qualsiasi cosa fosse, sulle pendici del monte Ararat e i ritrovamenti archeologici ‘fuori dal tempo’ delle città di Gobekli Tepe e Kisiltepe.
E’ possibile forse che l’uomo durante l’ultima Glaciazione non fosse una bestia stupida, nè scarsamente evoluta tecnologicamente. L’uomo antidiluviano possedeva invece tecnologie e strutture sociali avanzatissime ed aveva eretto imperi nelle fasce tropicali ed equatoriali del pianeta dove il clima rendeva prospera e fertile Terra. In Egitto, in Indonesia, in India ed in America Centrale (e forse anche in qualche continente, adesso, sommerso) grandi nazioni vivevano un epoca d’oro.
Molte di queste civiltà dell’epoca avevano fondato città immense dove adesso ci sono mari ed oceani. La civiltà della Valle dell’Indo è un esempio lampante. Con il diluvio il genere umano perse tutta la tecnologia e le conoscenze accumulate fino a quel momento, per vivere, nei seguenti millenni, un oscuro e lunghissimo neolitico.
Un sito archeologico al largo delle coste occidentali dell’India indica che la civiltà indiana potrebbe risalire ad addirittura 9000 anni fa, diventando di diritto una delle più antiche del mondo.
Quasi cinquemila anni fa, la Civiltà della Valle dell’Indo viveva il suo massimo splendore. Estesa su una superficie di oltre un milione di chilometri quadrati nei territori che oggi appartengono al Pakistan, all’India nord-occidentale e all’Afghanistan orientale, fu una delle prime e più importanti culture urbane dell’antichità.
Gli scavi iniziati a partire dagli anni Venti del Novecento portarono alla luce migliaia di reperti di rotte commerciali, edifici, manufatti e un sistema di scrittura ancora da decifrare. Poi, tra i 3900 e i 3000 anni fa iniziò il suo declino, per motivi tutt’altro che chiari.
Si pensa che il progressivo diminuire delle piogge frenò lo straripamento dei fiumi. Alla lunga, la poca acqua rese impossibile coltivare la terra e spinse la popolazione a spostarsi altrove.
è questo lo scenario ricostruito da un gruppo di ricerca coordinato da Liviu Giosan della Woods Hole Oceanographic Institution, negli Usa, in uno studio pubblicato su Pnas. “Abbiamo ritenuto fosse finalmente ora di contribuire al dibattito sulla misteriosa fine di questo popolo”, afferma Giosan.
La sua équipe ha lavorato in Pakistan dal 2003 al 2008 mettendo assieme dati archeologici e geologici. Per prima cosa, i ricercatori hanno elaborato mappe digitali del territorio utilizzando foto satellitari e dati topografici collezionati dalla Shuttle Radar Topography Mission, la missione congiunta NASA-NGA (National Geospatial-Intelligence Agency) che ha permesso di mappare in tre dimensioni la superficie del globo terrestre con un livello di dettaglio mai raggiunto prima.
Poi sono passati alla raccolta e all’analisi di campioni del terreno per risalire all’origine dei sedimenti e per capire come furono modificati nel tempo dall’azione di fiumi e vento. Combinando queste informazioni con i dati archeologici, hanno infine ricostruito lo scenario che vide l’ascesa, e il declino, della civiltà.
Il destino della popolazione di Harappa, dal nome del primo insediamento scoperto nel 1857, fu affidato ai monsoni. All’inizio, le piogge abbondanti alimentavano l’Indo e gli altri fiumi provenienti dall’Himalaya provocando inondazioni che lasciavano le pianure circostanti molto fertili.
Poi i monsoni iniziarono a diminuire, i fiumi smisero di straripare e la popolazione fu libera di costruire i suoi insediamenti lungo i corsi d’acqua, dove la fertilità del terreno rese fiorente l’agricoltura. Alla fine però, la scarsità di precipitazioni diede il colpo di grazia alle pratiche agricole e costrinse la popolazione a spostarsi verso est nella piana del Gange, dove le piogge continuavano.
Ma ciò cambiò radicalmente la cultura: le grandi città lasciarono il posto a piccole comunità agricole, segnando la fine della civiltà urbana della Valle dell’Indo.
Oltre a questo mistero, i ricercatori statunitensi credono di aver risolto anche quello del mitico Sarasvati, uno dei sette fiumi che, secondo gli antichi testi indiani Veda, attraversava la regione a ovest del Gange e veniva alimentato dai ghiacciai perenni dell’Himalaya.
Oggi si pensa che il Sarasvati corrisponda al Ghaggar, un fiume intermittente che scorre solo nella stagione monsonica per poi dissiparsi nel deserto lungo la valle di Hakra. Se ciò fosse vero, i dati geologici non confermerebbero l’origine himalayana del Sarasvati.
Sembra invece che il fiume sia stato sempre alimentato dai monsoni e che la desertificazione lo abbia infine ridotto a un corso d’acqua stagionale.
Questa scoperta è il risultato di circa otto mesi di ripresa di immagini sonar del fondo marino, dove sono state osservate strutture che somigliano a quelle costruite dall’antica civiltà Harappa.
Anche se sono stati individuati alcuni siti paleolitici risalenti a circa 20 mila anni fa nello stato indiano di Gujarata, si tratta della prima scoperta di strutture tanto antiche sotto la superficie del mare. La zona della scoperta, il golfo di Cambay, è stata oggetto di grande interesse da parte degli archeologi, per la sua vicinanza a un altro sito sottomarino, Dwarka, nel vicino golfo di Kutch.
Gli studi del nuovo sito sono però stati resi difficili dalla presenza di forti correnti di marea, con velocità fino a tre metri al secondo. Proprio per l’impossibilità di compiere vere e proprie immersioni, gli archeologi del National Institute of Ocean Technology indiano sono ricorsi alle immagini sonar.
Le immagini non mostrano solo le simmetriche strutture attribuite all’uomo, ma anche il letto di un antico fiume, sulle cui sponde fiorì la civiltà. La datazione del sito è stata fatta recuperando un frammento di legno da una delle strutture, che è risultata risalire all’anno 7600 avanti Cristo.
Città come quelle sopraccitate a cui voglio aggiungere la misteriosa città di Caral in Sudamerica, insieme ai ritrovamenti di manufatti umani se non addirittura veri e propri edifici sottomarini, testimoniano l’esistenza di una civiltà prima della storia. è difficile dire quali siano state le prime città del mondo. La distinzione fra città e grandi villaggi spesso è sottile.
Çatalhöyük (in Turchia), per esempio, è stata considerata la prima città dell’umanità: venne abitata a partire da 7500 a.C. (quindi solo duemila anni circa dopo la fine della glaciazione di wurm) e aveva un popolazione considerevole, fra i 5000 e i 10000 abitanti anche se il prof. Douglas Baird dice che “la maggior parte degli archeologi ora lo vede più come un grande villaggio. Il mio lavoro d’indagine intorno al sito suggerisce che questo non potrebbe aver agito come un centro politico o di scambio per dei circostanti villaggi contemporanei dato che non ce ne sono nelle vicinanze”.
Altri grandi insediamenti del 5500 a.C. e del 2750 a.C. sono stati trovati in Romania e Ucraina, ma anche questi sarebbero più delle proto-città senza peculiari caratteristiche di urbanizzazione. Altri siti antichi, invece, hanno sperimentato l’urbanizzazione solo millenni dopo: Gerico, per esempio, venne abitata a partire dal 9000 a.C. (praticamente subito dopo la fine del Wurm), anche se le mura vennero costruite successivamente.
Possibile che l’uomo post-diluviano sia stato in grado in così poco tempo città così ben strutturate? E se invece avessero per così dire ‘riciclato’ edifici e città pre-diluviane già esistenti prima di Noè?
D’altronde è pur vero che esistono prove concrete, anche se bistrattate dall’archeologia ufficiale, dell’esistenza di edifici già prima dell’avvento della civiltà umana storicamente riconosciuta. La più nota è forse la “Stele dell’Inventario”. Verso la fine del XIX secolo, l’egittologo Auguste Mariette, scavando nei pressi della Grande Piramide in un tempietto detto la “Casa di Iside”, ha trovato una stele che venne indicata appunto come la Stele dell’Inventario.
La traduzione di quel documento riservò una sorpresa perché nella stele Iside veniva indicata come “la Signora della Piramide” e vi si affermava che al tempo di Cheope, una piramide, la Sfinge, il Tempio a valle della Seconda piramide ed altre strutture erano già presenti sulla piana di Giza.
Per determinare di quanto fossero già presenti ai tempi di Cheope ci viene in aiuto la geologia.
Il geologo Robert Schoch notò un’evidenza sperimentale che è sempre stata sotto gli occhi di tutti: il corpo della Sfinge e l’adiacente Tempio della valle di Chefren sono stati erosi dalla pioggia.
La famosa statua metà uomo metà leone fu scolpita approfondendo una cava nell’altopiano di Giza, che è una stratificazione sedimentaria di diversi calcari. Tutti gli edifici in pietra della civiltà egizia presentano i consueti segni dell’erosione eolica: la sabbia portata dal vento incide più profondamente le rocce più tenere, in modo uniforme.
Il risultato è uno schema orizzontale: ad esempio un fronte di roccia stratificato diventa una successione di sporgenze (roccia compatta) e incavi (roccia tenera).
I fianchi e le pareti della fossa della Sfinge sono gli unici monumenti egizi che presentano anche un modello di erosione verticale, con forme arrotondate e profondamente incise (fino a 2 m), tipico dell’azione continua di intense precipitazioni che si rovesciano a cascata giù per i fianchi.
Le osservazioni di West destano scalpore perché degli ultimi 4500 anni la Sfinge ne ha trascorsi 3000 sepolta sotto la sabbia, quindi protetta dagli agenti atmosferici usuali in un clima desertico. Invece per trovare delle piogge di intensità tale da giustificare il forte degrado del corpo, bisogna risalire al periodo pluviale che caratterizzò il Nord Africa tra il 7000 a.C. e l’11000 a.C., al termine dell’ultima glaciazione.
Senza contare quanto riportato nella Pietra di Palermo scolpita su diorite (che ci riporta direttamente a Puma Punku), sulla Lista di Abydos, o ancora nel Papiro Regio di Torino, un documento su papiro risalente almeno alla XVII dinastia egizia o, forse, al regno di Ramesse II (1290 a.C. – 1224 a.C.), scritto in ieratico, che riporta, oltre all’elenco dei sovrani dall’unificazione dell’Alto e Basso Egitto fino al momento della compilazione, insieme al numero dei loro anni di regno una introduzione sui re semidivini del Periodo Predinastico dell’Egitto che inizia con Ptah e che prosegue con Horo (Horus) in modo molto simile allo schema presentato nella lista di sovrani sumeri vista in precedenza.
Re semidivini che regnarono in Egitto in un tempo remoto, oserei dire prediluviano. Mitologici re che regnarono prima che la storia dell’uomo avesse inizio. E su cosa regnavano se non esistevano città né un minimo di società culturalmente sviluppate? Possibile che venissero ricordati come semidei dei re o faraoni che regnarono su sparuti gruppi tribali neolitici dell’età della pietra durante la nostra preistoria?
Inoltre, se ci atteniamo alle parole della Bibbia in Genesi 4 leggiamo la nota storia di Abele e Caino, i primi due figli di Adamo ed Eva. Abele, pastore di greggi e Caino, agricoltore, che offrono a Dio i frutti delle loro fatiche il quale dio apprezzava con gradimento maggiore quelli di Abele e meno quelli di Caino.
Probabilmente Dio non era vegetariano… Ma al di là di quanto questo episodio dimostri ancora una volta la non trascendenza del dio biblico, sempre più palesemente un essere carnale, materiale, con vizi e virtù del tutto umani, torniamo alla storia di Caino e Abele.
Caino, il maggiore, non potendo riversare su Dio la sua irritazione, se la prese con il fratello e lo uccise, ma Dio lo preservò dalla vendetta degli altri uomini e Caino divenne costruttore di una città nella terra di Nod, città che chiamò con il nome del figlio, Enoc, da non confondersi con l’antenato di Noè.
E siccome Caino visse molto, ma molto tempo prima del Diluvio Universale questa città non è nient’altro che una delle città prediluviane di cui le leggende parlano quando si approcciano alle civiltà perdute governate da quegli Anunnaki, da quegli Elohim di cui i miti di tutti i popoli del mondo, di qua e di là dell’Atlantico parlano quando ricordano la meravigliosa Età dell’Oro.
Città, che nel caso di Caino, ardite teorie ritengono possa essere Tenochtitlan, uno dei più antichi stanziamenti nel centro america, che alcuni traducono proprio come ‘città di Enoch’ (T = genitivo + Enoch + tlan = città).
Personalmente ritengo più valida e affascinante l’idea presentata nell’estratto del seguente articolo intitolato “L’Eden riscoperto: geografia, questioni numeriche ed altre storie” di Emilio Spedicato, ove si ricorda che “… Genesi afferma che dopo l’uccisione di Abele, Caino dovette migrare verso la terra di Nod, ad est dell’Eden.
Sul suo corpo aveva un segno speciale, che fu presumibilmente trasmesso ai discendenti, i quali, nei tempi prima del diluvio, svilupparono per primi la costruzione di città, la metallurgia, e l’agricoltura.
La terra di Nod è interpretata nei testi talmudici come “la terra di vagabondaggio, di nomadismo”. Ora, ad est dell’Eden, o più precisamente a nord-est, abbiamo gli immensi pascoli dell’altopiano tibetano, della Mongolia e del Xinjang. E’ quindi una interessante supposizione che Caino sia entrato nel bacino del Tarim e che i suoi discendenti si spargessero attorno a questa vasta area. La maggior parte di loro diventarono allevatori di pecore, addomesticando yaks e cavalli e cammelli oltre alle pecore, altri praticarono l’agricultura, avvantaggiandosi della presenza molto probabile di un grande lago dolce nel Takla Makan e nella depressione del Lob Nor, la cui esistenza, abbiamo prima accennato, è stata scoperta assai di recente. Il fatto che questo lago fosse soggetto ad un processo di evaporazione, quindi ad una diminuzione della sua superficie, molto probabilmente si rivelò uno stimolo all’innovazione tecnologica, portando a quella civiltà avanzata di cui parla la Bibbia, le cui tracce cominciano solo ora ad apparire in quel deserto tuttora sostanzialmente inesplorato.
Se possiamo considerare i mongoli i più vicini discendenti di Caino, allora forse il “segno” dato a Caino può essere identificato con la cosiddetta macchia mongolica con la quale molti dei mongoli nascono. E’ una macchia blu collocata sulla schiena, di solito alla base della colonna vertebrale, e che scompare dopo pochi mesi ma che Gengis Khan la ebbe sulla mano e la portò per tutta la vita.
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